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by StudioStella

Cos’è il consenso nel diritto penale

Si definisce diritto penale la branca del diritto che comprende tutte le norme giuridiche destinate alla disciplina dei comportamenti illeciti per i quali è prevista una sanzione penale.

Ai sensi dell’articolo 17 del Codice Penale, le sanzioni penali sono l’ergastolo, la reclusione e la multa per quanto riguarda i delitti (per loro natura considerati reati più gravi e pertanto più severamente puniti); l’arresto e l’ammenda per quanto concerne invece le contravvenzioni.

Il diritto penale si occupa quindi della repressione dei reati, e laddove necessario di comminare le relative pene applicando le norme che regolano i rapporti tra i membri della medesima comunità. Non bisogna infatti dimenticare che il comportamento del singolo individuo è, di fatto, limitato e regolato proprio dall’esistenza di queste regole per così dire collettive: laddove tali norme non venissero rispettate, il soggetto dovrà rispondere di conseguenze non solo dal punto di vista sociale ma anche da quello giuridico.

Ora che abbiamo fornito alcune indicazioni generali in merito a cosa sia e di cosa si occupi il diritto penale, ci focalizzeremo sul concetto di consenso in tale contesto.

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Il consenso dell’avente diritto ai sensi dell’art. 50 del Codice Penale

L’articolo 50 del Codice Penale indica che “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.”

Si parla in questo caso del consenso dell’avente diritto, ossia dell’esclusione della punibilità di chi lede un diritto perché ha ottenuto il consenso proprio da parte dell’individuo che possiede quel diritto.

Questa norma può essere considerata anche l’espressione dei principi generali di responsabilità personale e autodeterminazione applicati alla sfera dei diritti privati: si pensi per esempio alla normativa per il trattamento dei dati personali, la cui gestione può essere ammessa esclusivamente previo l’esplicito e chiaro consenso del diretto interessato (Codice della Privacy, art. 23); o ai contesti in cui un individuo accetta consapevolmente di correre un rischio personale (per esempio nell’ambito di una gara sportiva) pur sapendo che non vi sarebbe risarcimento in caso di danno alla propria salute.

È inoltre importante tenere ben presenti i presupposti per l’applicazione del consenso dell’avente diritto, che per essere efficace dovrà essere sempre caratterizzato da alcune specificità:

  • La validità, ovvero dovrà provenire dal legittimo titolare del diritto, il quale dovrà essere correttamente informato.
  • La volontarietà: significa che il consenso dovrà essere espresso in modo spontaneo, volontario, manifesto e libero.
  • La presenza di diritti disponibili, come i diritti patrimoniali, alcuni diritti legati alla personalità morale (quale l’onore), e in modo parziale quelli legati all’incolumità personale e alla sfera sessuale.
  • L’attualità: il consenso dovrà sempre esistere al momento del fatto. Questo significa che il consenso potrà altresì essere revocato in qualunque momento prima della commissione del fatto stesso.

L’articolo 50 del Codice Penale fa quindi riferimento a situazioni eccezionali in cui un evento o un comportamento che normalmente costituirebbe reato non viene invece punito, proprio perché l’ordinamento permette quel comportamento grazie all’esplicito consenso fornito dal titolare del diritto.

La funzione del consenso diventa quindi, essenzialmente, quella di giustificazione tale a escludere l’antigiuridicità di un evento.

Quando il consenso stabilisce il reato: i “reati-contratto”

Si parla in questo caso dei “reati-contratto”, che si fondano proprio sul consenso inteso come accordo a fini illeciti. Gli esempi più comuni di questi comportamenti includono l’insolvenza fraudolenta, ossia l’assunzione di obbligazioni con l’intenzione di non adempiere a esse (art. 641 del Codice Penale); la vendita di beni fuori commercio o addirittura illeciti, e la frode in commercio.

Per quanto riguarda poi i reati colposi (ossia le azioni o i comportamenti dannosi non determinati tuttavia dalla volontà di nuocere quanto piuttosto dall’imprudenza, dall’imperizia, dall’inosservanza di leggi e regolamenti), il consenso non può essere ammesso proprio per la natura insita della condotta illecita, che si basa sulla negligenza.

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Il consenso informato in ambito medico

Infine, è bene dedicare qualche parola a una particolare tipologia di consenso – ossia quella legata ai trattamenti medici e chirurgici: il cosiddetto consenso informato.

È essenziale in ambito sanitario determinare in modo chiaro i limiti entro i quali il medico può incidere sui diritti imprescindibili della persona, ovvero quello alla vita e all’integrità fisica.

A disciplinare il consenso informato è attualmente la Legge n.219/2017, denominata “Norme in materia di consenso informato e di disposizione anticipate di trattamento”. Tale legge “tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”, nel rispetto dei principi della Costituzione (art. 2, 13 e 32) e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

In sintesi, la normativa afferma il diritto di ogni individuo di conoscere le proprie condizioni di salute e di ricevere informazioni complete, aggiornate e comprensibili relativamente a diagnosi, prognosi, benefici e rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari, oltre che le possibili alternative e le potenziali conseguenze che potrebbero derivare dal rifiuto delle cure.

La Legge n.219/2017 mira a promuovere una relazione virtuosa tra medico e paziente, basata sulla chiarezza delle informazioni, sulla fiducia e, appunto, sul consenso informato.

Quest’ultimo dovrà essere espresso in specifiche modalità, nel rispetto delle condizioni di salute del paziente: potrà quindi essere documentato in forma scritta, videoregistrato o comunicato tramite particolari dispositivi nel caso in cui la persona fosse soggetta a una disabilità. Sarà poi incluso nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico del soggetto, e potrà essere rivisto, modificato o revocato da esso in qualunque momento.

Giuridicamente parlando, il consenso medico informato evidenzia il diritto della persona all’autodeterminazione terapeutica, ossia alla libertà di scelta e decisione in merito alle prestazioni sanitarie da ricevere, previa la reale e completa comprensione delle proprie condizioni di salute.

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Diritto, Diritto penale d’impresa, Diritto penale del diritto d’autore, Diritto penale del lavoro, Diritto penale dell’ambiente, Diritto penale fallimentare, Diritto penale tributario18 Ottobre 20220 comments 0 Likes
by StudioStella

I soggetti nel processo penale: il ruolo della parte civile

Il processo penale è un giudizio che si svolge di fronte a un giudice e si conclude sempre con una sentenza.

Nel processo penale sono presenti diversi soggetti: il Pubblico Ministero che rappresenta l’Accusa, l’imputato ed eventualmente la parte civile, entrambi assistiti dai propri difensori.

Di quest’ultima parte processuale ci occuperemo nel prosieguo, spiegando chi sia e l’importanza del suo ruolo all’interno del processo.

Nell’infografica scaricabile a corredo di questo articolo è inoltre possibile scoprire, in un formato chiaro e semplice, qualcosa in più anche sulle altre parti coinvolte nel processo penale.

Chi è la parte civile in un processo penale

La parte civile è definibile come la figura che è stata danneggiata dal reato e che sceglie di esercitare nel processo penale un’azione civile al fine di ottenere il risarcimento del danno.

Di questa parte processuale si parla all’articolo 74 del Codice di Procedura Penale: “L’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’articolo 185 del Codice Penale può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”.

Precisiamo che l’azione civile non è obbligatoria ma facoltativa e sempre soggetta alla volontà del soggetto danneggiato dal reato: questo significa che nel corso del processo penale la parte civile può revocare la costituzione della parte civile in qualunque momento senza che questa azione infici il processo stesso o il suo esito.

In sintesi, il processo penale si svolge, continua e si conclude a prescindere dalla costituzione di una o più parti civili.

Quali sono i danni risarcibili?

La parte civile può richiedere il risarcimento di un danno patrimoniale o non patrimoniale.

Nel primo caso, ci si riferisce alla lesione al patrimonio del soggetto come conseguenza del reato, e la determinazione del danno patrimoniale dovrà sempre tenere conto sia della perdita economica (danno emergente) che del mancato guadagno (lucro cessante) che il danneggiato ha subito.

Nel secondo caso, quello del danno non patrimoniale, si fa invece riferimento alla lesione di interessi giuridicamente rilevanti a seguito del reato. Chiaramente, anche tale danno verrà risarcito economicamente e  – in questo caso – sarà tuttavia la traduzione monetaria di un pregiudizio relativo a un bene di natura non economica.

Tra i danni non patrimoniali rientrano quello biologico, quello morale e quello parentale, che possono essere descritti come segue:

  • Il danno biologico comporta la compromissione dell’integrità psicofisica del danneggiato.
  • Il danno morale è una conseguenza a livello emotivo per il danneggiato.
  • Il danno parentale è considerato come la lesione all’integrità del diritto di famiglia, e fa riferimento esclusivamente ai reati di omicidio.

Chi può costituirsi parte civile in un processo penale?

In un processo penale può costituirsi parte civile non solo il danneggiato, ma anche – laddove questo soggetto fosse ad esempio deceduto a seguito del reato – i suoi successori universali.

La parte civile può inoltre essere sia una persona fisica che un ente collettivo e privo di personalità giuridica.

Scarica l’infografica “Le parti coinvolte nel processo penale”

Come si diventa parte civile in un processo penale?

Il ruolo della parte civile in un processo penale prende forma con la cosiddetta “costituzione di parte civile”. Quest’ultima può essere definita come l’istituto giuridico attraverso il quale il soggetto danneggiato a seguito di un reato sceglie di esercitare un’azione civile nel processo penale al fine di ottenere un risarcimento per il danno subito.

Ai sensi dell’art. 76 del Codice di Procedura Penale si indica in tal senso che “l’azione civile nel processo penale è esercitata, anche a mezzo di procuratore speciale, mediante la costituzione di parte civile. La costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo.” 

La costituzione di parte civile deve rispettare tempistiche precise, definite dall’articolo 79 del Codice di Procedura Penale e caratterizzabili, rispettivamente, come termine iniziale e finale:

  • Come termine iniziale: nell’udienza preliminare o prima di essa, se il Pubblico Ministero ha già esercitato l’azione penale richiedendo il rinvio a giudizio dell’imputato.
  • Come termine finale: inteso come momento successivo all’udienza preliminare, ma comunque non oltre la fase degli atti introduttivi del dibattimento, nel corso della quale il giudice verificherà la corretta costituzione delle parti.

È importante inoltre ricordare che, per essere ammissibile, la dichiarazione di costituzione di parte civile dovrà sempre contenere i seguenti dati:

  • Generalità della persona fisica o la denominazione dell’associazione o dell’ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante.
  • Generalità dell’imputato verso cui viene esercitata l’azione civile o, in alternativa, indicazioni personali che ne permettano l’identificazione.
  • Nome e cognome del difensore dell’imputato e l’indicazione della procura.
  • Le ragioni che giustificano la domanda.
  • La sottoscrizione dell’avvocato difensore.

Per quanto riguarda i presupposti necessari alla costituzione della parte civile, essi sono essenzialmente due:

  • Il diritto al risarcimento e/o alla restituzione della cosa dovuta: si tratta di un diritto di natura sostanziale, originario oppure derivato per successione a titolo universale.
  • La capacità di stare in giudizio: significa che i soggetti che non dispongono della parziale o totale capacità di agire non potranno prendere parte al dibattimento, e che la loro incapacità processuale (completa o incompleta) dovrà essere sostituita con quella di chi li assiste o li rappresenta. È il caso, come già accennato, di soggetti minori, inabilitati o interdetti.

Scarica l’infografica “Le parti coinvolte nel processo penale”

Esclusione e revoca della parte civile: quando possono verificarsi?

Per concludere, è fondamentale tenere a mente che la parte civile può anche essere esclusa dal giudizio, secondo quanto previsto dagli articoli 80, 81 e 82 del Codice di Procedura Penale.

L’esclusione della parte civile dal processo penale può avvenire in due modalità: su richiesta e d’ufficio.

Nel primo caso, la richiesta deve essere proposta dall’imputato, dal responsabile civile o dal Pubblico Ministero, secondo quanto indicato nell’articolo 80.

Più specificamente, la richiesta di esclusione può avvenire “a pena di decadenza, non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nella udienza preliminare o nel dibattimento”.

L’esclusione della parte civile può avvenire anche d’ufficio, con ordinanza del giudice, finché non sia dichiarato aperto il dibattimento di primo grado qualora non sussistano i requisiti per la costituzione.

Per quanto riguarda infine la revoca della costituzione di parte civile, il primo comma dell’articolo 82 del Codice di Procedura Penale stabilisce che può intervenire “in ogni stato e grado del procedimento con dichiarazione fatta personalmente dalla parte o da un suo procuratore speciale in udienza ovvero con atto scritto depositato nella cancelleria del giudice e notificato alle altre parti”.

Tale revoca può avvenire sia in forma espressa che in forma tacita, qualora la parte civile non presenti le conclusioni a norma dell’art. 523 c.p.p. ovvero se l’azione venga promossa di fronte al giudice civile.

Scarica l’infografica

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Diritto, Diritto penale d’impresa, Diritto penale del diritto d’autore, Diritto penale del lavoro, Diritto penale dell’ambiente, Diritto penale fallimentare, Diritto penale tributario3 Novembre 20220 comments 0 Likes
by StudioStella

Le fasi del processo penale: il giudizio di appello

Regolato dalle norme del Codice di procedura penale, il processo penale si compone di diverse fasi e vede il coinvolgimento di diversi soggetti, così come approfondito nel nostro precedente articolo.

Tutte le fasi processuali – dall’iscrizione della notizia di reato alle indagini preliminari, fino alla richiesta di archiviazione o rinvio a giudizio, all’udienza preliminare, al dibattimento e all’emissione della sentenza – sono finalizzate a verificare la commissione di un reato e, di riflesso, anche la punibilità eventuale del soggetto accusato.

Tuttavia, la verifica della sussistenza di un determinato fatto come reato si snoda attraverso una serie di “step”: quello su cui ci concentreremo oggi è il giudizio di appello, che assieme alla revisione e al ricorso in Cassazione rappresenta una forma di impugnazione contro le sentenze.

Che cos’è il giudizio di appello

Conosciuto come secondo grado di giudizio, l’appello è un mezzo di impugnazione della sentenza di primo grado di un processo penale, ed è disciplinato nel titolo II del Libro IX del Codice di procedura penale, dall’articolo 593 al 605.

Il giudizio d’appello si caratterizza inoltre per alcune peculiarità:

  • È ordinario, ossia proponibile soltanto come impugnazione di una sentenza non definitiva.
  • È di merito, perché finalizzato a rivalutare i fatti oggetto della controversia.
  • È a critica libera, perché il Legislatore non ne precisa i motivi proponibili.
  • È parzialmente devolutivo, perché assegna al giudice di secondo grado una cognizione circoscritta ai capi e ai punti investiti dai motivi.

L’appello può inoltre consistere in una conferma o riforma della sentenza impugnata, mentre più raro sarà il suo annullamento – in particolar modo totale.

A decidere in Appello possono essere deputate diverse figure: il Tribunale Monocratico, composto da un solo giudice, per quanto riguarda le sentenze emesse dal Giudice di Pace; la Corte di Appello, ossia un collegio formato da tre giudici che decide in secondo grado sulle sentenze emesse dai tribunali monocratico e collegiale e dal GUP (Giudice dell’Udienza Preliminare); la Corte di Assise di Appello, cui spetta il compito di decidere in secondo grado sulle sentenze emesse dalla Corte di Assise e del GUP se relative a reati di competenza di queste figure; e la Corte di Appello Sezione Minori relativamente alle sentenze emesse dal Tribunale per i minorenni.

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I poteri di cognizione del giudice d’appello

Il giudice del processo d’appello ha pieni poteri cognitivi, esattamente come il giudice di primo grado, seppur limitatamente ai capi o ai punti della sentenza che vengono impugnati.

Tuttavia, tali poteri di cognizione cambiano a seconda della figura che propone l’impugnazione. Nello specifico, alcune distinzioni vanno fatte soprattutto nel caso in cui l’appellante sia il pubblico ministero:

  • se l’appello riguarda una sentenza di condanna, il giudice d’appello può inasprire o mutare la specie della pena o dare al fatto una definizione giuridica più grave, così come revocare benefici o eventualmente applicare misure di sicurezza o altri provvedimenti previsti dalla legge;
  • se l’appello riguarda una sentenza di proscioglimento, il giudice d’appello può pronunciare la condanna ed emettere i provvedimenti di cui al punto precedente o prosciogliere per una causa diversa da quella indicata nella sentenza appellata;
  • in caso di conferma della sentenza di primo grado, il giudice d’appello può applicare, modificare o escludere le misure di sicurezza e le pene accessorie nei casi determinati dalla legge.

Se l’appello viene invece proposto solo dall’imputato – che assume quindi il ruolo di appellante – il giudice d’appello non può emettere una pena più severa né per specie né per quantità; non può applicare una nuova o più grave misura di sicurezza, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella relativa alla sentenza appellata, e neppure revocare benefici. Può invece dare al fatto una definizione giuridica più grave senza tuttavia superare la competenza del giudice di primo grado.

In sintesi, il giudice chiamato a deliberare in appello dovrà, dopo aver ritenuto ammissibile l’impugnazione, decidere sui punti e sui capi della sentenza che l’appellante ha indicato come errati, limitando quindi la propria analisi (e pronuncia) a quegli specifici aspetti della sentenza e non alla sentenza in toto.

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Il giudizio in appello: un solo rito senza acquisizione di nuove prove

Tutti i giudici chiamati in appello, siano essi togati o popolari, sono generalmente di lunga esperienza mentre il ruolo dell’accusa è affidato a un procuratore generale di norma più “anziano” dal punto di vista professionale rispetto al PM che ha gestito il processo di primo grado.

È infine interessante notare che il processo d’appello comporta una relazione finalizzata a riassumere il caso di fronte ai giudici o al giudice così come le motivazioni che hanno portato all’appello stesso. Tale presentazione viene svolta dalla corte. La parola passa poi alla pubblica accusa mentre difesa e imputato avranno diritto all’ultima parola. Successivamente, la corte emette la sentenza di secondo grado.

Nel giudizio d’appello non vi è quindi alcuna attività di acquisizione di prove: si discute invece delle evidenze acquisite in primo grado senza che queste siano nuovamente assunte. Tale principio è valido per tutte le prove assunte ad eccezione di alcune circostanze straordinarie: in tal caso si parlerà di rinnovazione totale o parziale delle prove, con mera produzione di nuova documentazione relativa a evidenze già assunte in primo grado o di nuove prove scoperte successivamente, purché queste siano decisive o non potevano essere acquisite durante il procedimento di primo grado.

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Diritto, Diritto penale d’impresa, Diritto penale del diritto d’autore, Diritto penale del lavoro, Diritto penale dell’ambiente, Diritto penale fallimentare, Diritto penale tributario7 Novembre 20220 comments 0 Likes
by StudioStella

L’importanza del sapere scientifico nel processo penale

Competenze tecniche elevate sono ormai un requisito essenziale anche nei processi penali in una molteplicità di casi, quali ad esempio le vicende legate ai reati a tutela della salute e sicurezza sul lavoro, a quelli ambientali e persino ai reati societari e fallimentari. In questo contesto il “sapere scientifico” è ormai di importanza rilevante per tutte le figure coinvolte, avvocati, pubblici ministeri e giudici.

La necessità di doversi confrontare con tematiche non solo molto tecniche, ma anche lontane dalla competenza giuridica in senso stretto, mette gli operatori del diritto penale nella condizione di dover espandere la loro cultura e formazione affidandosi inoltre ad ulteriori specialisti di materie specifiche, nominandoli periti o consulenti di parte durante i processi.

Ed è proprio il confronto tra i professionisti del diritto e gli esperti “tecnici”, mediante le audizioni degli stessi l’acquisizione delle loro relazioni, ad aver generato un articolato dibattito sul ruolo della prova scientifica in giurisprudenza.

Cos’è la prova scientifica in ambito giudiziario?

Nella categoria della prova scientifica rientrano per la giurisprudenza tutte le prove che, a partire da un fatto dimostrato, devono utilizzare una legge scientifica per accertare o confermare un ulteriore fatto ancora da provare.

Va infatti ricordato che il Giudice del processo penale non è in possesso di conoscenze tecnico-scientifiche specifiche e deve quindi basare le proprie valutazioni sul parere e sulla competenza dei periti o dei consulenti tecnici di parte. Non è quindi in questo senso fautore della legge scientifica, quanto piuttosto suo fruitore. A partire dalla famosa sentenza Cozzini, tale principio risulta ormai consolidato.

Tale concetto è stato confermato dalle recenti motivazioni che la Corte di Cassazione ha addotto relativamente alla nota vicenda della strage di Viareggio.

“Sul piano dei principi occorre rammentare che è ormai divenuto patrimonio comune, quanto meno degli operatori del diritto, l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale nei giudizi debitori del sapere esperto al giudice è precluso di farsi creatore della legge scientifica necessaria all’accertamento. Poiché egli è portatore di una ‘legittima ignoranza’ a riguardo delle conoscenze scientifiche, ‘si tratta di valutare l’autorità scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica.”

“Da questo punto di vista il giudice è effettivamente, nel senso più alto, peritus peritorum: custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo’”, evidenziando che “la prova che le parti sono richieste di fornire non può essere altra da quella che occorre al giudice. (…) se il giudice ha necessità di conoscere quale sia la tesi scientifica maggiormente accreditata nella comunità degli studiosi, la parte che intende appellarsi a quella tesi ha l’onere di dimostrare tale accreditamento mentre la controparte potrà e dovrà resistere (anche) su quel medesimo terreno.”

Si tratta certamente di un compito arduo sia per il giudice chiamato a deliberare su una determinata vicenda sia per le parti processuali che, attraverso le opportune competenze, dovranno dimostrare la maggiore autorevolezza della tesi scientifica sostenuta dai propri esperti.

Nel corso della medesima sentenza, la Suprema Corte ha inoltre ricordato che

“la condanna può essere pronunciata solo quando l’imputato risulta colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Tanto implica che l’affermazione di responsabilità presuppone – limitatamente al punto in esame che sia acquisito ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ che la legge di copertura sulla quale è costruita l’impostazione accusatoria sia riconosciuta dalla comunità scientifica come quella maggiormente accreditata. (…)”

“Occorre pertanto dimostrare ‘soltanto’ la marginalità – non sul piano logico ma proprio su quello comparatistico – delle altre tesi in circolazione. Di contro, alla difesa è sufficiente dimostrare l’esistenza di un serio dubbio in ordine alla maggior ‘fortuna’ della teoria brandita dall’accusa (…) Sicchè il dubbio che può essere sufficiente a far fallire l’accusa attiene esso stesso al rango della spiegazione scientifica che si vorrebbe fosse utilizzata dal giudice.”

Quanto illustrato finora evidenzia in conclusione il ruolo sempre più centrale giocato dai professionisti coinvolti nell’ambito di processi penali che hanno come oggetto tematiche scientifiche anche molto complesse.

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Diritto, Diritto penale d’impresa, Diritto penale del diritto d’autore, Diritto penale del lavoro, Diritto penale dell’ambiente, Diritto penale fallimentare, Diritto penale tributario5 Ottobre 20210 comments 0 Likes
by StudioStella

Il D.lgs. n. 231/2001 compie vent’anni: ecco perché è così importante

Compie vent’anni il D.lgs. n. 231/2001, che ha introdotto la “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridiche, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”.

Si tratta di un anniversario importante perché, di fatto, tale normativa ha permesso che il nostro sistema giuridico superasse definitivamente il principio del “societas delinquere non potest”, ossia che “una società non possa delinquere”.

Sebbene il D.lgs. n. 231/2001 fosse inizialmente applicato solamente ad alcuni delitti dolosi, nel corso del tempo il legislatore ne ha ampliato il raggio d’azione includendo al suo interno anche ulteriori “reati presupposto”, ossia le fattispecie di reato che possono causare una responsabilità da parte dell’ente. Ad oggi, tale particolare categoria comprende circa cinquecento fattispecie di reato tra loro eterogenee, quali ad esempio i reati contro la Pubblica Amministrazione (che furono i primi a essere introdotti), quelli societari e ambientali, i reati a tutela degli infortuni sul lavoro, quelli informatici e, più recentemente, i reati tributari.

In termini pratici, l’estensione degli ambiti di applicazione del D.lgs. n. 231/2001 ha sensibilizzato le aziende – in particolar modo quelle di dimensioni medio-grandi – a implementare efficienti sistemi di compliance interna risultato dell’adozione di specifici Modelli Organizzativi. Questi ultimi devono naturalmente essere aggiornati costantemente, mentre la nomina dell’Organismo di Vigilanza garantisce la verifica dell’effettiva applicazione da parte dei destinatari del modello così come la sua adeguatezza e reale efficacia.

I Modelli Organizzativi: uno strumento efficace per evitare le responsabilità da reato ex D.lgs. n. 231/2001

Le aziende che adottano i Modelli Organizzativi di fatto hanno a disposizione un importante strumento per evitare la responsabilità da reato ex D.lgs. n. 231/2001. A dimostrazione di questa tesi vi sono diversi casi affrontati dalla giurisprudenza che si sono conclusi con l’assoluzione dell’ente proprio in virtù dell’idoneità del suo Modello Organizzativo – un tema di cui parleremo in modo più dettagliato nei nostri prossimi articoli.

In questo senso, è anche importante segnalare che sono recentemente state pubblicate le linee guida aggiornate di Confindustria relativamente alla costruzione dei Modelli Organizzativi con l’augurio che possano “ispirare le imprese nella costruzione del proprio modello e che, d’altra parte, la giurisprudenza valorizzi gli sforzi organizzativi sostenuti dalle imprese per allinearsi alle prescrizioni del decreto 231.”

A occuparsi attivamente dell’applicazione del D.lgs. n. 231/2001 vi è il già citato Organismo di Vigilanza, del quale ormai sempre più aziende di medio-grandi dimensioni si dotano nell’ottica della crescente attenzione mostrata dalla giurisprudenza in relazione alla sua centralità nei sistemi di controllo interni.

Più specificamente, l’Organismo di Vigilanza riceve i cosiddetti “flussi informativi” da parte delle diverse funzioni societarie trasformandosi poi nel mittente dei report (le “relazioni”) inviati ai vertici aziendali, al Consiglio di Amministrazione e al Collegio Sindacale. Ha quindi il ruolo di fornire a questi organi una rappresentazione sempre aggiornata dello stato di salute del sistema di controlli aziendali.

Sul punto vale la pena segnalare una recente sentenza del Tribunale di Milano sulla ben nota vicenda del Monte dei Paschi di Siena, che ha visto la condanna dell’istituto bancario al pagamento di una pena pecuniaria di 800 mila euro per i reati di false comunicazioni sociali e aggiotaggio a opera degli imputati, Presidente del Consiglio di Amministrazione e l’Amministratore Delegato/Direttore Generale.

Il Tribunale si è espresso in modo molto chiaro rispetto alla responsabilità dell’ente, spiegando che, nel periodo di interesse, “l’Organismo di Vigilanza, pur munito di penetranti poteri di iniziativa e controllo, […] ha sostanzialmente omesso i dovuti accertamenti (funzionali alla prevenzione dei reati, indisturbatamente reiterati), nonostante la rilevanza del tema contabile, già colto nelle ispezioni di Banca d’Italia (di cui l’OdV era a conoscenza) e persino assurto a contestazione giudiziaria, con l’incolpazione nei confronti di BMPS […].”

E ancora: “L’Organismo di vigilanza ha assistito inerte agli accadimenti, limitandosi a insignificanti prese d’atto, nella vorticosa spirale degli eventi (dalle allarmanti notizie di stampa sino alla débâcle giudiziaria) che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato. Così, purtroppo, non è stato e non resta che rilevare l’omessa (o almeno insufficiente) vigilanza da parte dell’organismo, che fonda la colpa di organizzazione di cui all’art. 6, d.lgs. n. 231/01.”

Confermando così, una volta di più, la centralità dell’Organismo di vigilanza nel monitorare e verificare l’adeguatezza ed efficacia del sistema di compliance aziendale.

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Diritto, Diritto penale d’impresa, Diritto penale del diritto d’autore, Diritto penale del lavoro, Diritto penale dell’ambiente, Diritto penale fallimentare, Diritto penale tributario6 Luglio 20210 comments 0 Likes
by StudioStella

Le posizioni di garanzia del datore di lavoro, del dirigente e del preposto

Di recente, abbiamo approfondito i doveri e le responsabilità che ricadono sul datore di lavoro nel caso in cui si verifichi l’infortunio di un dipendente. La tematica rientrava nel più ampio argomento delle garanzie e delle responsabilità nell’ambito della Sicurezza sul Lavoro, che nuovamente andremo in questa sede a esplorare parlando specificamente delle posizioni di garanzia del datore di lavoro, del dirigente e del preposto.

In questo senso, bisogna prima di tutto ricordare che un infortunio sul posto di lavoro rientra sempre nella sfera di responsabilità di una particolare figura: questa sarà il preposto se l’incidente è legato all’esecuzione materiale dei lavori; il dirigente se connesso all’organizzazione dei lavori; e infine il datore di lavoro se risultato di scelte gestionali “a monte” dell’impresa. Ciò significa che queste tre figure hanno tutte responsabilità in materia di sicurezza e che tale responsabilità è da considerarsi di fatto, ossia valida anche laddove non vi siano una nomina o una delega specifica.

La posizione di vigilanza e controllo è dunque un obbligo sempre inderogabile per il datore di lavoro, e nel caso in cui questi abbia delegato un’altra figura per l’applicazione delle norme poste a tutela della salute e della sicurezza degli operatori, avrà comunque la responsabilità di vigilare che i compiti affidati e le funzioni trasferite vengano applicate correttamente.

In questo senso, è una breve ordinanza emessa nel 2019 dalla Sezione VII penale della Corte di Cassazione a fornire conferma a seguito del ricorso presentato da un datore di lavoro che, successivamente a un incidente sul luogo di lavoro, si era difeso sostenendo di aver delegato i profili organizzativi legati alla sicurezza ad altre figure aziendali.

Il ricorso in questione è stato dichiarato inammissibile perché basato su un motivo infondato, dal momento che il datore di lavoro è per sua natura obbligato alle prescrizioni legate alla sicurezza e quindi responsabile di esse.

 

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Le garanzie del dirigente e del preposto: basate sull’attuazione “di fatto” di compiti prevenzionistici

Chiarito questo, è comunque importante sottolineare che esistono delle nette differenze tra la posizione di garanzia del datore e quelle del dirigente e del preposto.

Dal punto di vista del Diritto Penale del Lavoro, va ad esempio precisato che il dirigente è considerato quella figura che, di fatto, svolge i necessari compiti di prevenzione degli infortuni sul lavoro a prescindere dalla presenza di un reale contratto di lavoro subordinato con la qualifica di dirigente.

Al contrario, una figura professionale che, pur avendo un contratto da dirigente, non gestisce i lavoratori e dunque non vanta un reale potere organizzativo sui dipendenti non può essere considerato un dirigente per il Diritto Penale del Lavoro.

Il medesimo principio può essere in questo senso applicato anche al preposto che, lo ricordiamo, è la figura deputata a sovrintendere tutte le attività di cui è incaricato il gruppo di lavoratori ed è pertanto responsabile – pur nell’ambito delle proprie specifiche attribuzioni e competenze – di attuare le necessarie misure di prevenzione e protezione. Più specificamente, il preposto ha il dovere di vigilare oggettivamente sull’attuazione degli adempimenti di sicurezza e di vigilare soggettivamente sull’osservanza delle disposizioni previste da parte di tutti i lavoratori.

In termini pratici, il preposto dovrà supervisionare ad esempio l’utilizzo dei necessari DPI, attuare il piano di controllo e manutenzione sulle macchine; segnalare inadempienze o comportamenti scorretti ai propri superiori e verificare l’eventuale presenza di rischi imprevisti sul luogo di lavoro. Non è invece deputato ad adottare e organizzare le misure di prevenzione a meno che tale compito non sia espressamente dichiarato in un’apposita delega.

Per quanto riguarda invece il dirigente, tale figura è incaricata della gestione del sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività di lavorativa – come accennato in apertura di articolo e come espressamente indicato dalla Cassazione Penale, Sez. 4, 01 agosto 2016, n. 33630.

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Diritto, Diritto penale del lavoro21 Giugno 20210 comments 0 Likes
by StudioStella

Infortunio sul lavoro: cosa deve fare il datore di lavoro?

Secondo la legislazione italiana, tutti i datori di lavoro hanno l’obbligo di assicurare i loro lavoratori contro incidenti, infortuni sul lavoro e malattie professionali che potrebbero essere contratte durante lo svolgimento dell’attività professionale.

Più specificamente, l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) si prende carico di coprire qualunque infortunio che:

  • Sia avvenuto per causa violenta, ossia generato da aggressioni che dall’esterno danneggino l’integrità psicofisica del lavoratore. Tale categoria interessa tipicamente gli infortuni causati da macchinari, attrezzature o sostanze tossiche e nocive.
  • Sia avvenuto in occasione del lavoro, ossia derivi dalla sussistenza di un rapporto di causa-effetto tra l’attività lavorativa e l’infortunio che interessa il lavoratore.
  • Abbia come conseguenza il decesso, l’inabilità permanente o l’inabilità assoluta temporanea del lavoratore per tre giorni, escluso il giorno dell’infortunio.

Si sottolinea che, laddove si verifichi un infortunio con un macchinario e tale infortunio non sia guaribile entro i tre giorni dall’evento, il datore di lavoro dovrà obbligatoriamente inoltrare all’INAIL la denuncia/comunicazione dell’infortunio in massimo due giorni dalla ricezione del certificato medico (art. 53 D.P.R. 1124/1965). Tale segnalazione dovrà invece avvenire entro ventiquattr’ore dall’evento laddove l’infortunio generasse la morte del lavoratore.

Prima di entrare più specificamente nel merito delle azioni che il datore di lavoro deve compiere in caso di infortunio sul lavoro di uno dei suoi operatori, ripassiamo però la definizione di questo specifico evento.

Che cos’è l’infortunio sul lavoro?

Sebbene non esista una vera e propria definizione normativa dell’infortunio sul lavoro, è possibile fare riferimento al Testo Unico (T.U.) delle disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria (d.p.r. 30 giugno 1965 n.1124) poi modificato dal D.lgs n. 38/2000.

Dal T.U. si evidenzia che “L’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni.”

Come è facile comprendere, bisognerà dunque intendere l’infortunio sul lavoro come qualunque evento nefasto che generi un danno all’integrità psicofisica di un operatore nel corso del normale svolgimento dell’attività lavorativa.

Elementi imprescindibili dell’infortunio sul lavoro saranno quindi l’evento nefasto, il trauma fisico per il lavoratore, l’occasione del lavoro e la causa violenta.

 

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Cosa deve fare il datore di lavoro in caso di infortunio di un dipendente

Laddove un dipendente subisca un infortunio sul lavoro, il datore di lavoro è soggetto a specifici obblighi.

Nel momento in cui apprende dell’evento nefasto, questa figura dovrà come già accennato avvertire l’INAIL mediante apposita denuncia o comunicazione, così come imposto dall’art.53 del Testo Unico delle disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria (oltre che da quanto disposto, circa la comunicazione, dall’art. 18, co. 1, lett. R, d.lgs n. 81 del 2008 in materia di sicurezza sul lavoro).

Tale norma sottolinea che l’obbligo ricade sempre sul datore di lavoro, “indipendentemente da ogni valutazione rispetto alla ricorrenza degli estremi di legge per l’indennizzabilità”.

La denuncia di infortunio sarà diversa a seconda dell’entità dell’infortunio e della prognosi del lavoratore vittima dell’evento nefasto.

In questo senso, il datore di lavoro dovrà procedere come segue:

  • Potrà limitarsi alla sola comunicazione di infortunio se l’evento ha procurato una prognosi da cui deriva l’impossibilità del lavoratore a svolgere la propria attività lavorativa per almeno un giorno (successivo a quello dell’infortunio) o prolungata fino a tre giorni. L’obbligo di comunicazione (come disposto dall’art. 18, co. 1, lett. r) avrà in questo caso esclusivamente finalità informative e statistiche per il sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (Sinp), ed è da considerarsi in vigore ogni volta che si verifica un infortunio. La sola comunicazione di infortunio andrà presentata entro 48 ore dalla ricezione del certificato medico.
  • Dovrà invece effettuare la denuncia d’infortunio quando il lavoratore è soggetto a una prognosi è superiore ai tre giorni (oltre a quello dell’evento). A differenza della semplice comunicazione, la denuncia sarà in questo caso essenziale perché la tutela assicurativa possa operare e perché l’INAIL possa indennizzare l’infortunio. Contestualmente, la denuncia assolverà anche l’obbligo di comunicazione del punto precedente. La denuncia dovrà avvenire entro 48 ore se la prognosi è superiore a tre giorni oltre a quello dell’evento, oppure entro 24 ore dall’evento se l’infortunio sul lavoro abbia causato morte o pericolo di morte per l’operatore.

Ricordiamo anche la denuncia dovrà essere effettuata dal datore di lavoro per via telematica attraverso la compilazione del modello 4 bis R.A. presente sul portale web dell’INAIL. È in questo senso opportuno specificare che, qualora il datore di lavoro non denunci l’infortunio o lo comunichi in ritardo, il legislatore potrà comminare sanzioni, come previsto dall’articolo 53 del T.U. e dell’art. 18, co.1, lett. r), del d.lgs.81/2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Le deleghe di funzioni nell’ambito della sicurezza del lavoro

L’articolo 16 del Testo Unico sulla Sicurezza del Lavoro indica che il datore di lavoro potrà delegare alcune delle proprie funzioni secondo specifici limiti e condizioni:

  1. Che esse risultino da atto scritto recante data certa
  2. Che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate
  3. Che esse attribuiscano al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate
  4. Che esse attribuiscano al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate
  5. Che la delega sia accettata dal delegato per iscritto

È tuttavia importante tenere a mente che il datore di lavoro non potrà delegare le attività di valutazione dei rischi con conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28 né la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.

A tali obblighi il datore dovrà quindi adempiere direttamente.

Come accennato, la delega delle funzioni dovrà inoltre essere redatta nel pieno rispetto dei principi normativi sanciti dall’articolo 16, quali ad esempio la forma scritta, la data certa e l’autonomia di spesa. Quest’ultima si riferisce al fatto che il delegato definito dal datore di lavoro potrà gestire autonomamente le risorse economiche necessarie a espletare in modo adeguato i compiti di cui è stato incaricato.

In definitiva, la delega di funzioni nell’ambito della sicurezza del lavoro dovrà rispettare specifici requisiti per essere efficace:

  • Dovrà essere formale, diretta, chiara, dettagliata nella sostanza e pubblicizzata in modo tale da essere recepita in modo non equivocabile dai lavoratori.
  • Dovrà essere esplicitamente accettata dal delegato incaricato, in forma scritta e su documentazione che riporti data certa.
  • Il delegato in questione dovrà possedere i requisiti professionali e l’esperienza necessari a svolgere al meglio le funzioni richieste dal datore di lavoro.

Il grande vantaggio delle deleghe di funzioni nell’ambito della sicurezza del lavoro è quello di rendere più semplice ed efficace l’operato aziendale. Non va dunque mai intesa come uno scarico di responsabilità ma, al contrario, come un rapporto di collaborazione e interazione virtuoso finalizzato a incrementare la sicurezza sui luoghi di lavoro.

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Diritto, Diritto penale del lavoro10 Maggio 20210 comments 0 Likes
by layer22

Garanzie e responsabilità penale del preposto nella sicurezza sul lavoro

La normativa sulla prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro si pone l’obiettivo di costituire un network di garanti che sappia affrontare in modo puntuale ed efficace le più comuni e frequenti fonti di pericolo alla salute degli operatori.

Nello specifico, ci si trova di fronte a una vera e propria rete di soggetti con funzioni diverse: il datore di lavoro, il delegato, il RSPP, il dirigente, il preposto, il medico competente, il coordinatore per la progettazione e quello per l’esecuzione e via discorrendo, così da realizzare una sorta di complementarità tra le diverse figure, ciascuna con il proprio ambito di competenza e con la propria responsabilità nel caso in cui l’incidente si verificasse.

Proprio in funzione di questa prospettiva, di verifica una “competenza a scalare” tra i tre principali attori della sicurezza sul lavoro, ossia il datore di lavoro (al quale spettano le scelte di fondo del sistema prevenzionistico e che ha quindi responsabilità di eventi infausti causati da carenze di base del sistema di sicurezza dell’azienda), il dirigente (che ha il compito di attuare le direttive del datore di lavoro e che risponde degli effetti di un’inadeguata concretizzazione del sistema di sicurezza dell’impresa) e il preposto che secondo la giurisprudenza di legittimità più recente “è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico”.

Quest’ultimo è la figura chiamata a sovraintendere l’attività lavorativa, e potrebbe vedersi imputati soltanto gli eventi infausti risultato di violazioni delle regole in atto nell’azienda o, in alternativa, di fattori di pericolo straordinari verificatisi durante la prestazione professionale.

In termini sintetici, si può affermare che il preposto abbia il compito primario di controllare i rischi esecutivi legati all’attività.

 

Gli obblighi del preposto secondo il Decreto Legislativo 81/2008

Secondo l’art. 19 del Decreto Legislativo 81/2008, gli obblighi del preposto sono i seguenti:

  1. Sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione e, in caso di persistenza della inosservanza, informare i loro superiori diretti.
  2. Verificare affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico.
  3. Richiedere l’osservanza delle misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa.
  4. Informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione.
  5. Astenersi, salvo eccezioni debitamente motivate, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave ed immediato.
  6. Segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta.
  7. Frequentare appositi corsi di formazione secondo quanto previsto dall’articolo 37.

 

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Il “rischio esecutivo” del preposto nell’ambito della sicurezza sul lavoro

Il preposto è responsabile del cosiddetto “rischio esecutivo”, che di fatto si riverbera in un’attività di vigilanza complessa e articolata, sia a carattere passivo che attivo.

Per vigilanza passiva si intende la capacità di questa figura di assicurarsi che gli operatori utilizzino i vari DPI necessari all’attività e osservino le misure di sicurezza previste (ad esempio il divieto di accesso in determinate aree). La vigilanza attiva risiede invece nel compito di comunicare al datore di lavoro qualunque condizione di pericolo si verifichi durante lo svolgimento delle attività. Sarà poi dovere del datore stesso valutare ed eventualmente risolvere la problematica riscontrata dal preposto.

Oltre agli obblighi di vigilanza continuativa, il preposto deve poi rispondere di situazioni di vigilanza occasionale laddove si generino condizioni di “emergenza” o “pericolo grave o immediato” (art. 19 del Decreto Legislativo 81/2008), ossia eventi straordinari che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Essendo proprio il preposto il “garante prossimo” degli operatori, sarà suo il compito di fronteggiare situazioni improvvise e indicare le procedure e misure di emergenza da seguire, di cui l’esempio più evidente è l’immediato abbandono dell’area. Contestualmente, questa figura dovrà di nuovo procedere a informare i datori di lavoro in merito alla presenza del rischio emergenziale.

 

L’obbligo di formazione del preposto e il ruolo giocato nella sua responsabilità

È assolutamente fondamentale evidenziare il ruolo che la formazione del preposto gioca nell’attribuzione di responsabilità che potrebbero derivare da un evento infausto o emergenziale sul luogo di lavoro.

L’ultima lettera dell’art. 19 del Decreto Legislativo 81/2008, relativo agli obblighi del preposto, sottolinea come questi debba “frequentare appositi corsi di formazione secondo quanto previsto dall’articolo 37”.

L’articolo 37 prevede, a sua volta, che il datore di lavoro fornisca ai lavoratori una formazione completa ed esaustiva (o, più nello specifico, “sufficiente e adeguata”) relativamente al tema della sicurezza sul lavoro, con particolare riferimento a concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza, nonché a rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda.

Alla formazione ricevuta dal preposto sarà quindi direttamente collegata la sua responsabilità in caso di incidente sul luogo di lavoro, poiché l’istruzione specifica non soltanto conferisce effettività alla funzione ricoperta dal soggetto, ma delinea anche il perimetro della tipologia di rischio che questi è in grado di riconoscere proprio “sulla base della formazione ricevuta”.

 

Il “preposto di fatto” e la sua posizione di garanzia

Vale infine la pena spendere qualche parola sulla posizione di garanzia del preposto incaricato della sicurezza “di fatto”.

Il “preposto di fatto” è colui che, anche in assenza di incarico ufficiale o nomina, ricopre un ruolo che può essere gerarchicamente ricondotto al preposto (secondo il principio di effettività) e che pertanto si vede ascritte tutte le imputazioni derivanti dalla sua posizione nei confronti degli altri lavoratori.

Un esempio pratico? Il lavoratore che è solito dare direttive o impartire ordini ad altri dipendenti, sulla base di ordini e istruzioni ricevuti da una figura a lui superiore (come il datore di lavoro), e alle cui direttive gli altri operatori sono soliti ubbidire.

Anche per questa particolare figura si prevede una formazione specifica (per un totale di otto ore da aggiornarsi ogni cinque anni) come previsto dall’art. 37 del Decreto Legislativo 81/2008.

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Diritto, Diritto penale del lavoro19 Marzo 20210 comments 0 Likes
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